I ritmi nella Musica Popolare Piemontese

Molte volte si sente dire (o addirittura si legge su pubblicazioni che dovrebbero essere specializzate!) che la Musica Popolare Piemontese non ha al suo interno strumenti ritmici o che il ruolo di questi pochi sia perlopiù trascurabile. Nella realtà dei fatti, ciò non è assolutamente vero. Da una sommaria ricerca condotta diversi anni fa, contai fino a ventisette (27) strumenti a percussione utilizzati normalmente nella musica popolare alpina (e non parlo di bonghetti, cajon o djembè, quelli fanno parte di altri mondi sonori). Visto che siamo anche in periodo di Carnevale, colgo l’occasione per riportare le parole di Franco Gili, “Primo Tamburo” del gruppo “Pifferi e Tamburi” della città di Ivrea (Canavese). La tecnica qui spiegata è piuttosto raffinata, ha radici nei metodi musicali pubblicati tra ‘600 e ‘700 (Orchesographie, Syntagma Musicum, Harmonie Universelle, etc.) e fa rivivere i ruoli che ebbero questi importanti strumenti nell’Esercito Sabaudo.

“La musica dei tamburi si basa su cinque battute fondamentali, dalle quali nascono tutte le nostre marce tradizionali: “Tao”, “Bachet-te Rote”, “Plao”, “Rao” e “Rolé”. Il “Tao” è un solo colpo con una sola bacchetta, mentre le “Bachet-te Rote” è una successione di “Tao” alternando ritmicamente le due bacchette; il “Plao” è una battuta contemporanea delle due bacchette, una delle quali deve toccare molto debolmente la pelle, al fine di evitare un suono muto e addirittura sgradevole; può essere fatto in rapida successione alternando il movimento debole prima sulla bacchetta sinistra e poi su quella destra, ottenendo così un doppio o triplo “Plao” (massima estensione del “Plao”). Sembra facile, ma il “Plao” è una cosa difficilissima, perché una bacchetta deve sfiorare e l’altra deve battere e ottenere questo non è facile… sembra facile, ma non lo è, si ottiene un suono diverso dal “Tao”, molto più potente. Il “Rao” è una rapida successione di colpi eseguiti con una sola bacchetta: con un colpo di polso si deve riuscire a far rimbalzare ripetutamente (fino a sei – dieci volte) la bacchetta sulla pelle: la perizia sta nel domare con le dita il rimbalzo. Infine il “Rolé” (o rullo), che si ottiene da una ritmica sequenza di “Rao”: nel nostro repertorio accompagna le cinque “Diane”, la “Generala” e fa da raccordo nel frammezzo di svariate marce. Le moltiplicazioni dei colpi diventano così “Ra Ta Plao”, “Ta Ta Plao”, Ta Ta Ta Plao” e “Pla Ta Tao”.”

Come potete vedere, nulla di meno di qualunque metodo moderno per percussioni o batteria. Però, se le cose non si sanno, è facile scrivere che “non esistono strumenti a percussione nella musica Piemontese”. Di certo, le informazioni non vengono a suonarti il campanello a casa…

 

Il Ballo Popolare a Torino (a cura di Beatrice PIGNOLO)

Qualcuno osserverà che , tuttavia, Torino pare città tanto poco adatta per un “carnet di ballo”; ma se oggi è la città più seria d’Italia, non lo fu nel secondo cinquantennio del secolo scorso, tempo suo felicissimo, irripetuto e irripetibile. Non solo. Fin dal ‘500 gli ambasciatori veneti che minuziosamente descrivevano gli Stati d’allora, dall’Italia del Sud a quella del Nord, dall’Europa all’Oriente, avevano notato come i popoli del duca di Savoia situati “di qua dai monti” mai si stancassero in una singolare “fatica”: quella “che fan ballando”. E Torino, capitale del ducato, tenace nelle contraddizioni come nelle tradizioni, trasmise di padre in figlio la smania “balarina” che nel secolo scorso esplose come un’epidemia. Gli scrittori d’allora la osservano sottolineandola sino alla noia: dalle pubbliche piazze alle platee dei teatri, dalle sedi dei circoli a quelle delle associazioni, dai saloni aristocratici alle sale borghesi, dal salottino dell’impiegato alla soffitta dell’operaio, dall’antro fumoso dell’artigiano al buio retrobottega del negoziante, dall’aia della cascina al giardino della villa, dalla collina alle rive del Po, di carnevale o d’estate, di domenica, di giorno, di notte sovente Torino pareva diventare un’unica sala da ballo.

Consideriamo solo l’inizio, il secondo dei grandi carnevali, il 1868, quando Torino era ancora lontanissima dall’apice del suo associazionismo godereccio; escludiamo i balli privati che sarebbero incalcolabili; non contiamo le 14 “balere” di piazza Vittorio e le piste da ballo delle piazze Statuto, Bodoni, Carlina, Emanuele Filiberto, Venezia; teniamo presente che i balli di carnevale incominciavano il 7 gennaio e sconfinavano beatamente in quaresima; e dopo di ciò potremo osservare che questa città di 194.000 abitanti in una notte qualsiasi di quel lungo arco di tempo ballerino offriva ai cittadini d’ogni rango e d’ogni tasca 72 veglioni contemporaneamente. Alcuni dei balli più importanti accoglievano 2000-2500 ballerini per volta (il teatro Vittorio Emanuele anche 4000-5000) e sin verso il 1880 le danze duravano dalle 10.30 della sera alle 8 del mattino successivo.

“Carnet di ballo” balli, mascherate e carnevali a Torino dal 1860 al 1899
Longanesi & C

Jenzat e la Ghironda (Estratto dal Bollettino de “L’Amicale des Vielleux et Cornemuseux du Centre” – Pagg. 41 e 42 – 1974) a cura di Gaston GUILLEMIN

Ho tradotto “a braccio” questo interessante scritto di G.Guillemin (era il 1974, con tutti gli errori e le ingenuità del periodo!), perché credo che siano notizie importanti per considerare come le tradizioni nascano, parecchie volte, per opera di poche persone. In questo caso, è il “Liutaio Illuminato” che crea la scena. Anche il “Musicante Illuminato” dovrebbe creare la scena, non dimentichiamolo quando ci lamentiamo troppo …

 

 

 

 

 

Jenzat e la Ghironda (Estratto dal Bollettino de “L’Amicale des Vielleux et Cornemuseux du Centre” – Pagg. 41 e 42 – 1974) a cura di Gaston GUILLEMIN

“Questo strumento molto antico esisteva un po’ dappertutto in Europa. Il primo esempio conosciuto, funzionante con un ingegnoso meccanismo di “ruota a mò di archetto”, si chiamava “Organistrum”. Aveva tre corde ed era piuttosto voluminoso, necessitava inoltre di due esecutori per suonarlo. Era riservato unicamente all’utilizzo monastico, verso il X Secolo. La “Symphonia” o “Chifonie” doveva succedergli. Aveva quasi lo stesso volume sonoro, ma le dimensioni iniziarono a ridursi, così da permettere ad un solo esecutore di suonarla. Nel Medio Evo, i liutai si sforzarono di ornarla di motivi decorativi, dipinti o intarsiati. Perfezionarono il suono dei cantini, così da renderlo più armonioso: la Ghironda nacque così. Allora, la forma era a cassa piatta e trovatori e trovieri si accompagnavano con essa di castello in castello. Durante il Rinascimento, divenne uno strumento di corte, poi scomparve per un lungo periodo, utilizzata solamente da mendicanti come quelli di Pont-Neuf a Parigi. Nel XVIII Secolo, la “Vielle” fece una nuova comparsa a corte e nei saloni reali. In alcune città si formarono diverse “Accademie di Musica” (Clermont 1731 – Moulins 1736). E poi venne l’oblio… salvo che in certi territori, soprattutto come quelli del Centro Francia. Fu in quel momento che apparvero i liutai di Jenzat, dei quali si dice che “inventarono” la Ghironda a liuto o “Bateau”

La famiglia PAJOT e la “Vielle”

Verso la fine del XVIII Secolo, un abitante di Jenzat, chiamato Gilbert Pajot, nipote e ultimo pronipote di un “Real Notaio della Signoria di Jenzat”, entra in possesso di una “Vielle” a fondo piatto, prestatagli da uno dei suoi parenti, curato a St-Sornin. Gilbert Pajot, che era un uomo molto abile, copia questa Ghironda e ne vende la copia stessa. Ne realizza una seconda: la fabbricazione della “Vielle” era nata a Jenzat! La Ghironda, che fu all’origine di tutta questa liuteria artigianale, è tuttora in possesso della famiglia Pajot, con l’ acquisizione del fondo “Pajot-Fils”.
Il figlio del precedente liutaio, Jean-Baptiste Pajot, nato nel 1817, fece apprendistato presso i liutai di Mirecourt (esiste una fotografia che lo raffigura e un ritratto fatto a matita, fatto nel 1842). Egli fu uno dei migliori liutai di Jenzat ed è l’autore di un magnifico strumento intarsiato di madreperla e avorio, residente presso la collezione della famiglia Pajot. Fu anche sindaco di Jenzat e morì il 24 Luglio del 1863 senza aver avuto figli.
Un cugino, Jean-Antoine Pajot, il quale aveva appreso il mestiere a bottega da Jean-Baptiste, rilevò il fondo e il laboratorio. Jean-Antoine assunse e impiegò diversi operai che, successivamente, aprirono i propri “ateliers” personali: Pimpard, Nigout, Tixier, Décante e uno dei suoi nipoti, Jacques, detto “Gilbert”, nato il 18 Aprile 1845 (curiosamente, nella storia della famiglia Pajot si ripetono continuamente gli stessi nomi di persona: Gilbert, Jacques-Antoine, Jean o Jean-Baptiste, Jean-François). Quando Jean-Antoine scomparve, lasciò un figlio che aveva solamente quattordici anni, indi per cui il nipote Gilbert prese in mano le redini della liuteria.
Costui fonda il proprio “atelier” sotto il nome di “Pajot-Jeune”. Gilbert Pajot si installa dunque nella casa dello zio, “Maison Varennes” (ora Rue des Luthiers). Ebbe due figli: Joseph, nato nel 1868 e Jean-Baptiste, nato successivamente. Il primogenito, Joseph, lavorò con suo padre a bottega mentre il secondo continuò gli studi e divenne maestro.
Joseph Pajot, a sua volta, ebbe un figlio chiamato Jacques-Antoine (l’ultimo liutaio), il quale, dopo aver terminato gli studi secondari al Liceo di Moulins, prese a lavorare con il padre. Da qui in poi, aiutò nella fabbricazione della Ghironda, ma iniziò anche la vendita commerciale di ogni tipo di strumento musicale. Quando morì, nel 1935, la “Maison Pajot” scomparve con lui. Jacques-Antoine acquistò il fondo e con esso anche le due “Vielles” storiche: quella che diede il via all’arte liutaria di Jenzat e quella “capolavoro” istoriata di avorio e madreperla di Jean-Baptiste Pajot, opera d’arte di valore inestimabile.
Gilbert Pajot morì nel 1920. Suo figlio Joseph, sindaco di Jenzat, scomparve nel 1926. Dobbiamo a lui una bella Ghironda intarsiata di ebano e avorio, attualmente conservata dalla famiglia. Jacques-Antoine si occupò prevalentemente di vendite e riparazioni. Effettivamente, la fabbricazione di “Vielles” si fermò per mancanza di richieste. Quest’arte, purtroppo, continuò soltanto in forma di riparazioni su strumenti in cattivo stato, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (1939-45). Successivamente, la “Vielle” è stata riportata agli onori delle cronache da “Società Folkloriche” sempre più numerose. Jacques-Antoine lavorò successivamente per il “Palais de Challot – Pavillon des Arts et Traditions Populaires”, per il quale costruì una Ghironda “in bianco”, cioè “non montata”.

Gli altri liutai di Jenzat

Tutti appresero il mestiere di liutaio presso la bottega di Pajot. Furono:
I PIMPARD: erano parenti della famiglia Pajot J.Baptiste; la sorella di Gilbert, il primo liutaio, aveva sposato un Pimpard. Gilbert Pimpard apre il suo atelier personale, succede a lui il figlio Claude, che morì nel 1931 senza eredi. Il loro dipendente, ANJIOUX rileva il fondo, ma muore un anno dopo. Il fondo Pimpard viene quindi acquistato da J-A. Pajot.
TIXIER: anche lui fece l’apprendistato presso A. Pajot. Aveva la sua bottega presso l’attuale “Maison Sanselme”. Celibe, muore nel 1887. Gilbert Pajot acquista i suoi fondi per 545 Franchi.
NIGOUT: medesimo apprendistato. Aprì il suo “atelier” nella parte alta del villaggio, presso l’attuale “Maison de M. Seramy”. Ebbe due figli, un maschio (mancato a vent’anni) e una femmina. Il suo fondo fu acquistato da J-A. Pajot.
DECANTE: abitava presso il piccolo castello. Ebbe due figlie, una si sposò con CAILH, di Charroux. Quest’ultimo venne ad abitare presso la casa del suocero ed apprese la costruzione della “Vielle”. Alla morte di Décante, Cailh ritorna ad abitare a Charroux e continua il mestiere appreso. Nessuno dei suoi due figli continuò il mestiere del padre. Alla sua scomparsa, J-A- Pajot acquista il suo fondo. Un curioso aneddoto: Pajot trova nel laboratorio di Cailh una tavola di abete vecchia di 105 anni, destinata ad una Ghironda per un suonatore di Bordeaux. Questa “Vielle”, dalla sonorità eccezionale, è una delle pochissime costruite da J-A. Pajot.
Tutti questi liutai, ormai estinti, non hanno avuto discendenti che continuassero la loro opera. I loro fondi furono tutti acquisiti dalla famiglia Pajot, ramo Pajot-Jeune. L’ultimo liutaio dell’epoca fu quindi Jacques-Antoine. Uno dei nipoti dovrebbe riprendere il testimone in mano: speriamo che riesca a rinnovare la tradizione…

Il lavoro dei liutai

Era un lavoro di arte e di grande pazienza. Un liutaio lavorava tutto il giorno, riuscendo a costruire due Ghironde in quindici giorni, solitamente quattro strumenti al mese. Una Ghironda poteva avere un valore medio di ottanta Franchi, indi per cui entravano circa trecentoventi Franchi al mese, non moltissimo.
I legni utilizzati erano l’acero, il noce, il palissandro, l’abete e l’ebano. Innanzitutto costruivano la cassa su di una forma apposita (Moule). Per il fondo a liuto, tagliavano delle fasce molto sottili (mm.1) in acero o noce per le Ghironde ordinarie, oppure in acero e palissandro per quelle di pregio. Per poter curvare il legno e ottenere così la piegatura voluta, le mettevano a mollo nell’acqua bollente.
Poi seguiva la costruzione della ruota e della tavola, le quali venivano montate insieme. La tavola armonica era in abete, talvolta anche in acero e posava su tre tasselli. Era normalmente leggermente bombata. La ruota era interamente in acero: fermata su di un supporto, veniva forata al centro e tornita.
Poi veniva il turno della tastiera, con salterelli, tasti bianchi e neri, i bischeri, i ponticelli e il copriruota. La tavola, il copriruota e il coperchio della tastiera erano sovente ornati con motivi dipinti, decalcomanie, intarsiati con filetti di osso, di ebano o d’avorio, i quali costituivano sugli strumenti più belli una splendida decorazione.
Le teste delle “Vielles” in generale erano scolpite prima, sovente in serie. Venivano montate insieme alla tastiera. Secondo lo strumento o secondo l’artigiano, potevano essere molto “primitive” o finemente scolpite. Il liutaio era insomma un “tuttofare”, sapeva lavorare il legno, l’avorio, la madreperla e il metallo. Ogni parte dello strumento era realizzata dal medesimo artigiano e richiedeva parecchie ore di paziente lavoro. Le giornate lavorative erano molto lunghe e sovente si prolungavano in veglie serali, con i vicini di casa che venivano per chiacchierare, guardare o fare i loro lavori personali.
Gli strumenti venduti o riparati venivano condotti alla stazione di Charroux, per mezzo di un carretto trainato da un asino. Affiancati alla costruzione delle “Vielles”, si costruivano anche filatoi e arcolai per la gente dei dintorni ed anche bocce da biliardo in avorio. Poi si prese a vendere qualche fisarmonica, qualche flauto, alcuni clarinetti e violini ed infine qualunque strumento musicale richiesto, compresi riparazioni ed assistenza. Ciò, poco a poco, detronizzò il dominio della “Vielle” e della “Musette”.”

 

VIVERE DI MUSICA, MORIRE DI MUSICA – Il Ballo Popolare “Clandestino” durante il Nazismo

Due testimonianze preziose, soprattutto di questi tempi, per ricordare e dare il giusto peso alle cose che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi. Morireste voi per ballare? O per suonare la fisarmonica? Era in gioco molto più che il divertimento futile, era in ballo la guerra della Civiltà contro la barbarie. Ricordiamo, finché siamo ancora in tempo, e non solleviamo il labbro in un sorrisetto come per dire” Ma per favore, mica può più succedere?” Ricordiamo quando, durante le innocue feste da ballo di oggi, cosa voleva poter dire: stasera son tornato a casa vivo. Domani vedremo.

 

Nella Francia sotto l’occupazione nazista, vennero proibiti i balli e qualunque tipo di assemblea pubblica, in quanto avrebbero potuto essere “riunioni sovversive atte a contrastare il potere dominante”. Queste testimonianze sono tradotte “a braccio” da me (Rinaldo Doro) e tratte dal volume “Regards – 1936-2016” a cura di Eric Montbel e André Ricros, Editions de la Flandonnière.

 

“Il 5 Febbraio 1944 organizzammo un’ultima cena collettiva e un ballo presso Brain. Un palchetto venne montato. Eravamo circa cinquecento tra ragazzi e ragazze. L’atmosfera era quella di una festa, senza dubbio per mascherare l’inquietudine e la deportazione inevitabile verso lo STO (ndt: “Service du Travail Obligatoire”, una spiacevole convenzione del governo di Vichy, la quale prevedeva la deportazione obbligata nei campi di lavoro: ogni tre operai francesi veniva rilasciato un prigioniero di guerra).
Le danze si susseguivano senza sosta e, ad un certo punto, tutti quanti intonarono “La Marsigliese”, senza alcun ritegno o paura… in fondo, non eravamo forse in Francia? Mancavano pochi minuti alla mezzanotte, l’ora fatidica; il 6 Febbraio e la deportazione sarebbero iniziati da lì a poco! Malgrado il freddo glaciale di fuori, all’interno del tendone faceva tremendamente caldo e uscimmo con alcuni compagni a prendere una boccata d’aria. Sulla porta c’era un uomo molto grande, dall’aspetto inquietante, che non aveva nulla di francese. Stava là, guardando impassibile il gioioso spettacolo che si offriva ai suoi occhi. Non ebbi timore di temere il peggio, qualcuno ci aveva traditi!
Ma noi restammo lo stesso fuori, a fianco di quest’individuo che non ci ispirava alcuna fiducia. All’ interno, qualcuno spense le luci al passaggio di un aereo, poi l’orchestrina riprese come nulla fosse. Poco tempo dopo, raffiche di mitraglietta, luci spente: eravamo accerchiati! Istintivamente, rientrammo sotto il tendone. Subito, iniziò il rastrellamento: accompagnato dalle urla delle SS, colpi di calcio di fucile, pugni, calci, sberle, talmente tante al punto che è difficile dire chi non ne è passato indenne…
Ci allinearono, ci contarono, eravamo con le mani sulla testa; alla minima parola facevamo conoscenza con il calcio di un fucile o un pugno di questa “élite hitleriana”. Noi prigionieri fummo condotti alla caserma della Gendarmeria, fummo nuovamente contati e rimessi in riga. Ci separarono: i ragazzi in una sala, le ragazze in un’altra. Un capitano corpulento ci venne a fare un discorso di una bella mezz’oretta, del quale non ricordo che l’ultima frase: voi siete tutti comunisti, sarete tutti fucilati.
Dopo la notte e la mattinata passata in duecento nella stessa stanza, ci scortarono fino alla stazione. Qualche anziano e i ragazzi con meno di diciassette anni furono rilasciati, invece le ragazze, sotto riscatto di due o tre franchi dell’epoca a testa, furono riconsegnate alle famiglie. Noi fummo inquadrati e fatti salire su dei carri bestiame. Qualcuno, che non aveva vestiti sufficienti, fu fatto salire lo stesso. Ci scaricarono a Nevers, presso una scuola che faceva da centro di raccolta e anche di tortura. Ci mandarono tutti in Germania.”
Testimonianza di Pierre VOLUT “Le Bal de la classe 1944 et ses conséquences” in “Un siècle a Deciza”

UN FISARMONICISTA ASSASSINATO
“Robert Belaubre era originario di Sousceyrac-dans-le-Lot, dove nacque nel 1908.
Fisarmonicista appassionato, fu sostenuto dalle sue tre sorelle, le quali, in tempo di guerra, non accettavano l’idea che non si potesse ballare. Suonava per mantenere la gioia, perché il morale dei suoi concittadini non finisse sotto la suola delle scarpe.
Quando i balli furono proibiti in conseguenza dell’occupazione nazista, Robert Belaubre, senza pubblicità e senza pianificazione, suonò lo stesso regolarmente ai balli clandestini organizzati nei granai o presso abitazioni private. L’informazione degli eventi era anch’essa clandestina, in un passaparola da un orecchio all’altro e sottovoce.
In effetti, i nazisti e i francesi che li sostenevano potevano nuocere gravemente alla vita sociale di una popolazione, togliendo loro quei piccoli divertimenti innocui. Si trattava solo di balli popolari e di suonare la fisarmonica… ma erano considerate riunioni sovversive.
Il 12 Maggio 1944, la “Das Reich” passò a Sousceyrac e arrestò Robert Belaubre senza ragione apparente. Condotto alla caserma “Doumère” di Montauban, venne fucilato con altri tre ostaggi il 16 Maggio 1944.
Prima che potesse animare i balli della Liberazione, il corpo di Robert Belaubre fu ritrovato a fianco dei suoi tre compagni di sventura in un campo militare a Montbèton.”
Manuel RISPAL.”La Libération désirée” 2016

L’orgoglio di un cappello – Il “Brando dei Priori” di Casalborgone (TO)

Ci siamo recati a Casalborgone, un comune della zona collinare Monferrina a una dozzina di Km. da Chivasso, il giorno 15 Agosto 2018 per la Festa dell’Assunta. In questo paese vive ancora una tradizione antica, quella della “Badia dei Priori”. Risalente al 1680, venivano eletti, in mancanza del Podestà, i capifamiglia più “retti e ligi ai doveri”, i quali dovevano far rispettare le leggi e prevenire i disordini durante le feste o i mercati della zona.Al giorno d’oggi, vengono scelti i potenziali Priori (detti “Sernù”, scelti in Piemontese) tra gli uomini sposati del paese. In passato, erano scelti un Capitano, un suo Luogotenente, un Alfiere e quattro Sergenti. Insieme a loro, quattro Priore (sposate) e quattro “Ciroire” (o “Siroire”), ragazze giovani che portano i ceri per la messa. Dopo i vari convenevoli (presa delle alabarde e delle insegne in Comune, processione, messa, pranzo comunitario), nel pomeriggio si esegue il “Ballo del Drapeau”. Tutti i Priori, a turno e ballando al suono di una Marcia eseguita dalla Banda (quest’anno era la marcia “Noccioletta”), nella piazza principale del “Leu” (centro storico) passano sulla testa della gente una bandiera (Drapeau) raffigurante la Vergine Maria, patrona della festa, quasi a voler celebrare il tocco “scaramantico – apotropaico” dell’oggetto. Una sorta di portafortuna, un rituale tra il magico e il religioso, il pubblico intervenuto tocca e stringe il “Drapeau”, quasi a volerne “estrarre” il potere miracoloso. Terminato il “Ballo del Drapeau”, si va al sottostante ballo a palchetto e i Priori, le Priore e le “Ciroire” danno il via al ballo pubblico per tutti. Però, l’apertura è destinata al “Brando”, una danza in cerchio che solamente i Priori hanno diritto di eseguire.

Non è assolutamente permesso ne’ ai coscritti, ne’ a chiunque altro di introdursi nel cerchio: il “Brando” è esclusivamente dei Priori. Il ballo inizia in modo lento per poi accelerare nel corso dell’esecuzione, i partecipanti girano ora in un senso, ora nell’altro, sempre tenendosi per mano. Ciò lo rende simile ai vari “Corenton” sopravvissuti in Piemonte (Barbania, Caluso, etc.), un suggello di un gruppo sociale. Ai Priori è richiesto di portare un cappello in uso in famiglia già da molte generazioni: sono cappelli di antica foggia, ornati con nastri tricolore. Il vestito è scuro e vengono indossati guanti candidi. Le Priore e le “Ciroire” sono invece vestite in bianco, come un abito da sposa. Si dice che, un tempo, potesse fare il Priore chi avesse fuori dalla cascina “ël baron ëd drugia pì aot” (il mucchio di letame più alto), ciò voleva dire che si possedevano molte mucche e che i soldi per organizzare la festa erano assicurati. I Priori si occupano delle spese e dell’organizzazione della celebrazione, essendo tutto offerto al pubblico intervenuto. Dopo il “Brando”, Valzer, Polche, Mazurche e One-step sono suonati dalla locale Banda Filarmonica, alla “Mòda Vej-a” e ci si scatena in balli di coppia…

Strumenti musicali “effimeri” e inconsueti in uso in Canavese

La Civiltà Contadina ha sempre espresso svariate forme di creazione artistica, dal punto di vista sonoro e visivo. Pensiamo ai canti popolari della nostra tradizione, alle composizioni spontanee che scaturivano dalle menti e dal cuore dei musicisti tradizionali o alle opere teatrali spontanee (sacre e non) che venivano rappresentate nelle stalle. Tutto questo in uno stile alpino omogeneo e assolutamente caratteristico, che non prevedeva il superfluo e il vacuo, quanto piuttosto l’essenziale, il reale e il materiale, simboli di un’esistenza dura vissuta quotidianamente. Nel campo della musica popolare, il passato dei nostri antenati ci offre una visione esplicativa del loro mondo, legato principalmente agli eventi naturali e stagionali. Compaiono, già quarantamila anni fa, i primissimi strumenti musicali costruiti e utilizzati dall’uomo: flauti ricavati da ossa di animale, conchiglie, tronchi cavi, sonagli di semi e archi sonori. Molti di questi strumenti preistorici si sono tramandati per via orale, da padre in figlio, fino a rimanere in auge (come costruzione e uso) ai giorni nostri. Questa inchiesta è stata svolta in Canavese nel corso di circa quarant’anni di ricerche sul territorio in collaborazione con il Centro Etnologico Canavesano di Bajo Dora (C.E.C.) e illustrerà alcuni dei moltissimi usi che la Gente di campagna e montagna faceva delle scarse risorse materiali intorno a sé per costruire oggetti in grado di ottenere suoni. La “non-musica” e gli strumenti “effimeri” Cosa si intende per “non-musica” o anche “paramusica”? Nel Medio Evo, la musica “celeste” era principalmente musica sacra, eseguita con strumenti canonici quali l’arpa, la cetra, la fidula, la viella, mentre la musica popolare di allora o “infernale” non godeva di simili suoni, ma veniva eseguita spesso con strumenti di fortuna, quali tamburi, zufoli, cucchiai percossi, pentole e così via. Insomma, ciò simboleggiava per la società arcaica la lotta tra il Bene, la Luce (la musica canonica) e il Male, l’Oscurità (il frastuono). Ricordiamo l’esecuzione del “charivari” o “ciabra”, in uso ancor oggi nelle Langhe per evidenziare un matrimonio inconsueto (marcata differenza di età o stato sociale) o, anzichenò, un tradimento di uno dei coniugi: gruppi di giovani si riuniscono sulle colline antistanti l’abitazione della “vittima designata” e, con urla, canti sguaiati e suoni percussivi eseguiti con strumenti di fortuna (coperchi, bidoni, campanacci da mucca) beffano l’ignaro “colpevole” del fatto, producendo un fracasso fastidioso. Gli strumenti “effimeri”, invece, sono quegli strumenti musicali che hanno vita sonora per un tempo limitato: quindici giorni, un mese, una stagione. Sono costruiti soprattutto con materiali vegetali quali cortecce d’albero, gusci, semi o canne, possono essere trombe, zufoli o semplici percussioni. Generalmente, sono legati al rituale del risveglio della natura: dopo una stagione fredda e oscura come l’inverno, bisogna “svegliare” l’erba addormentata e far tornare la luce. Quando l’uomo è solo, ha paura, canta, fischia, fa rumore per scacciare gli spiriti cattivi. Così il suono e le vibrazioni scacciano i malvagi e nefasti spiriti invernali (un tempo, la stagione di gran lunga più difficile da superare a livello di sopravvivenza), dando il risveglio alla natura e permettendo il ritorno della luce e del verde nella nuova tornata primaverile. Vediamo ora alcuni di questi strumenti inconsueti usati in Canavese:

Corno di stambecco, di caprone o di mucca (Bequèt): sono tra gli strumenti più arcaici, si utilizzano i corni degli animali forandoli in punta e ottenendo così una sorta di tromba naturale. Con la pressione delle labbra e del fiato sul bocchino così ottenuto, si emettono suoni che servivano per segnalare il passaggio di mandrie, il pericolo di fuoco o di furto di bestiame o anche semplicemente usati da ragazzi all’aperto durante la “Settimana Santa”, nella quale le campane non possono suonare. Giravano per le vie del paese suonando corni, conchiglie e raganelle, chiedendo in questua un salame, delle uova o semplici caramelle e biscotti. Alla fine, il tutto si risolveva con una “merenda sinòira” collettiva in piazza.

Conchiglie sonore (Sonaj-e, Lumasse): erano conchiglie della specie “Charonia Tritonis”, presenti nel maggior parte del Mar Mediterraneo. Venivano regalate dagli acciugai (ancioè mercandin) itineranti i nostri mercati, le “Sonaj-e” provenivano dalle navi per la pesca delle acciughe e, praticando un foro nella parte apicale, si creava un tubo sonoro analogo a quello del corno di stambecco, solamente fatto a spirale. Quasi tutte le famiglie ne posseggono una in casa, anche conchiglie centenarie. Mi venne spiegato che questo strumento era utilizzato per simboleggiare il frastuono che facevano i Giudei mentre il Cristo saliva il Golgota trascinando la croce. Quindi, un altro strumento legato all’uso nella” Settimana Santa”. Questa tradizione è diffusa in tutta Italia.

Raganelle (Cantarana, Tric-Trac): costruita in un legno locale che si trovasse sul posto senza problemi di difficile reperibilità (castagno, noce, frassino, etc.) da qualche “nonno” esperto in falegnameria, si presenta come una ruota dentata montata su di un manico, la quale, tramite rotazione, fa risuonare una o più lamelle di legno fissate su di una cornice. Il suono che ne deriva somiglia vagamente a quello di una raganella, da qui il nome “Cantarana”. Ne esistono esemplari di tutte le misure, da piccolissime a enormi, quest’ultime venivano addirittura issate sul campanile a sostituire le campane “legate”. E’ uno strumento usato in tutto il mondo, particolare l’uso durante la funzione della messa in sostituzione della campanella. Anche questo è uno strumento della “Settimana Santa”.

Batacchio (Martlët): costruito in legno duro, è composto da un martello di legno mobile, montato su di un manico con un perno che lo fa oscillare tra due superfici di battuta percussiva. Scuotendo lo strumento, il suono che se ne ricava è molto acuto e penetrante, veniva usato in processione o in qualche chiesetta di montagna che non poteva permettersi l’acquisto di campane per richiamare i fedeli alla messa.

Asse sonora (Tenëbbra): costruita in legno e metallo, somiglia ad un tagliere per salumi. Si teneva per il manico e, tramite le due “maniglie” metalliche inchiodate sulle superfici dell’asse, oscillando si produceva un suono percussivo dal volume molto elevato. Anche la “Tenëbbra” era usata durante la Settimana Santa per produrre frastuono.

Ossa di mucca (Tachenettès): semplici ossa di bovino (costine), venivano opportunamente ripulite da carne e cartilagini rimaste “immergendole” in un formicaio. Le formiche, oltre a svolgere un attento lavoro di ripulitura sia all’esterno che all’interno (midollo), tramite una loro secrezione “vetrificavano” l’osso, rendendolo cavo e durissimo. Si tengono con il palmo della mano e, mentre una costina viene mantenuta fissa e serrata tra le dita, l’altra oscilla e percuote ritmicamente tramite il movimento del polso. Il suono ottenuto ricorda vagamente quello delle nacchere. Possono anche essere costruite in legno duro, in questo caso hanno la forma di due assicelle. Un virtuoso di questo strumento era il sig. Severeun Chillod, di Aymavilles (AO), suonatore di fisarmonica e “Tachenettès”.

“Ressia” o Saracco: la “Ressia”, ovvero la sega di tipo saracco, può venire usata come strumento sfregato da un archetto. Tenendo la “Ressia” stretta tra le gambe dalla parte del manico, torcendo la lama in maniera opportuna e sfregando un archetto da contrabbasso sulla parte non dentata, si producono vere e proprie melodie. L’abilità del suonatore darà la perfetta intonazione e modulazione allo strumento, ricordiamo difatti il mitico “Pierin d’la Ressia” che si esibiva a Bajo Dora accompagnato da una fisarmonica. Questo particolare strumento è diffuso in tutto il mondo, con virtuosi di eccellenza.

“Tascon, Flé o Fleyé”: in italiano, “correggiato”. Era lo strumento tipico per la battitura del grano, composto da due bastoni legati tra loro con una correggia (striscia) di cuoio. I contadini, durante la battitura, si davano un ritmo particolare per eseguire il lavoro e quindi, negli anni ’60, due fratelli artigiani valdostani ne fecero una versione sonora mettendo due risuonatori cavi di legno alle estremità del bastone. Si dice anche che il movimento della “còte” della falce richiami l’esecuzione percussiva del “fleyé”, sicuramente è uno strumento dalla radice contadina conclamata.

Tromba di corteccia (Trombët-ta, Piva): ecco il primo strumento “effimero” vero e proprio. Si costruisce con la corteccia del frassino, castagno, gelso, salice, etc. Si pratica un taglio a spirale sul pollone e si scortica la pianta cercando di ricavare un “nastro” di corteccia che sarà poi avvolto a mo’ di cartoccio e fissato con un chiodino. Ottenuto così un tubo sonoro, si potrà soffiare nell’estremità più piccola come una tromba, ottenendo un suono modulabile. Qualcuno riesce persino a collocare un ancia semplice costruita con la canna, a guisa di clarinetto. Questa variante viene chiamata “piva”. Lo strumento può durare un paio di settimane, poi la corteccia si asciuga e non suona più. Può essere allungata la vita della “tromba” immergendola in acqua e mantenendola bagnata.

Zufoli (Subiët, Pifèr, Sigolòt): costruiti con rametti di frassino, sorbo o comunque con un legno elastico che non presenti troppi nodi sulla corteccia. In primavera la corteccia non ha ancora aderenza al fusto e quindi, con una certa abilità, si possono ottenere (con l’aiuto di un coltellino) piccoli tubi sfilando il legno del rametto, con molta attenzione. La difficoltà maggiore era nell’ottenere la “zeppa”e il “labium”, indispensabili per far suonare lo zufolo. Si costruivano flauti a “coulisse”, semplici fischietti o anche strumenti con fori da chiudere con le dita, capaci di qualche melodia. Anche il sambuco era un’ottima pianta per costruire flauti, nella mia ricerca ho ritrovato un esemplare di flauto a sei fori in sambuco (ormai centenario!) appartenuto ad un pastore e in tonalità (approssimativa) di La. Altri flauti, di tipo traverso, potevano essere costruiti in canna: molti pifferai del Carnevale di Ivrea iniziavano l’apprendistato su questo tipo di strumento, decisamente più economico e reperibile dell’impegnativo “piffero” in bosso.

Canna percossa (S-ciapèt): una canna palustre (magari recuperata dall’orto come sostegno per la pianta dei pomodori!) tagliata per lungo in due parti diseguali: una parte deve essere più pesante per poter creare la pulsazione ritmica. Tenendo la canna per il fondo non tagliato e percuotendolo con l’altra mano, si otterrà come un suono di frusta. Questo strumento è conosciuto in tutta l’area mediterranea, in Catalunya prende il nome di “Caña escardada”.

“Ramassa”: la “Ramassa” o scopa era uno strumento a sfregamento, composto da sottili legnetti dritti legati tra di loro, a mo’ di fascina. Sfregandoli tra le mani, si produceva un caratteristico suono come di scopa su selciato, usabile come accompagnamento al canto o come puro gioco. Si usava anche il manico della scopa di saggina con della cenere buttata sul tavolo: sfregando il manico sul pian di legno, l’attrito produceva un suono sordo e cupo, che scatenava il riso dei bimbi.

“Ciaflòira”: una semplice striscia di corteccia fresca, di pollone, stretta alle due estremità e tirata con forza verso l’esterno. Produrrà un suono simile ad una frustata. Veniva usata dai “Coroj” (Personaggi del Carnevale di Loranzè Alto) per far largo tra la folla ai figuranti del corteo carnevalesco.

Zucchette sonore (Ravi, Suchët, Cossa): le “Ravi” erano piccole zucche del tipo “Cossa màta”, cioè non commestibili. Essiccate, veniva fatto loro un foro sul lato con un ferro incandescente, si svuotavano dai semi e si mettevano a bagno nel vino, perché la “rava” potesse acquisire robustezza e sonorità. Poi, con molta attenzione, si segava la zucchetta in due parti speculari che venivano rifinite con della carta vetro. Controllato che non passasse luce tra le due metà, si portava alla bocca lo strumento tenendolo con due dita e si “cantava” nell’apertura fatta con il ferro incandescente. Le membrane delle pareti vibravano e formavano il suono. Il risultato acustico era simile al “kazoo”, una sorta di ronzio modulato dalla voce. Esistevano gruppi organizzati di queste “Ravi” (famosi ad esempio quelli di Fubine, nell’Alessandrino) e, incredibilmente, vennero anche incisi dei dischi a 78 giri con questi particolari complessi organizzati di “Sonador ëd Ravi”!

Guscio di noce: con un guscio di noce, un fiammifero o uno stuzzicadenti e un elastico, si costruiva una sorta di risuonatore percussivo che imita il galoppo del cavallo!

“Cigale” o Cicala: un tondino ricavato da una canna palustre, un filo da pesca, un po’ di pergamena (o pelle) e un bastoncino assemblati nella giusta maniera: questo strumentino riproduceva il suono delle cicale e dei grilli nei prati estivi, semplicemente facendolo ruotare sopra la testa.

“Torototela”: è questo il nome dato sia allo strumento che al suonatore, si usava come oggetto sonoro imitativo del violino, chiaramente in senso ironico e sbeffeggiatore. Si componeva di un arco di legno con una corda tesa ai vertici fatta di budello di maiale. La corda passava tra le due estremità dell’arco, poggiandosi sopra una vescica di maiale gonfiata, la quale fungeva da risuonatore. Tramite un archetto di crine di cavallo impeciato, rudimentale surrogato dell’archetto da violino, si sfregava la corda di budello producendo un suono basso e cavernoso, simile al grugnito del maiale. I “Torototela” erano una sorta di cantastorie che giravano spesso per i paesi o i mercati, chiedendo un piccolo obolo per le loro canzoni. Addirittura, rimane famoso l’episodio di Angelo Brofferio, celebre autore teatrale e musicale piemontese dell’800, che compra un costume da “Torototela” nel negozio Gambetti vicino a piazza Carignano a Torino e, sfidando la censura, si intrufola nel Teatro Regio e si esibisce dinnanzi al re Carlo Felice, ottenendo il plauso di quest’ultimo. “L’è arivà ‘l Torototela, l’è arivà ‘l Torototà!” era l’incipit che dava l’inizio alla loro esibizione.

Cucchiai, pentole, mestoli, tazze, bottiglie: qualunque oggetto poteva essere percosso, soffiato, sfregato per produrre suono o vibrazione.

Sicuramente, qualche strumento o oggetto sarà stato dimenticato, ci sarà qualcuno che dirà: “Sì, ma non hai parlato di…!”. E’ chiaro che, in un’indagine complessa e vasta come quella sul mondo popolare non si finisce mai di imparare. La genialità, la fantasia e la voglia di sopravvivere al di sopra delle mestizie quotidiane era quello che i nostri avi ci hanno voluto trasmettere. Prendiamo coscienza del grande valore culturale e umano lasciatoci in eredità e cerchiamo almeno di non perdere la voglia di fare, di costruire e di sperimentare in questo nostro mondo odierno fatto di pre-cotto, pre-ordinato e pre-digerito. E avevano così pochi materiali su cui potevano contare! Quanta fantasia espressa…

Rinaldo DORO – Centro Etnologico Canavesano (C.E.C.) 8 gennaio 2016

L’Accordéon Romantique

Forse molti non sanno che l’”Accordéon”, il nostro caro e amato Organetto, ha origini tutt’altro che popolari o rustiche. Non staremo a fare tutta la storia di come e quando i vari inventori (o presunti) depositarono i loro progetti, bensì partiremo dal momento in cui Cyril Demian, fabbricante di organi e pianoforti a Vienna, insieme ai due figli Carl e Guido deposita il brevetto n.1757 il 6 Maggio 1829.  Il nome del “nuovo” strumento è ACCORDEON: questo perché lo strumento è una scatoletta rettangolare dotata di mantice e ance libere, le quali producono, sotto l’azione di alcuni tasti meccanici, degli accordi sulla scala diatonica. L’”Accordéon” riscuote immediatamente successo presso la corte austriaca, perché pare sia lo “strumento perfetto” che molti auspicavano venisse inventato, uno strumento che potesse avere le modalità esecutive ed espressive del pianoforte, portatile e affine alla voce umana. Naturalmente, la novità non passa inosservata in Francia: diversi costruttori (orologiai, liutai, musicisti vari) si accingono a produrre la nuova “scatola sonora”, citiamo ad esempio come uno dei più famosi artigiani M.Reisnier, il quale nel suo laboratorio di Galerie Colbert a Parigi nel 1832 produce addirittura una gamma di cinque “Accordéon” diversi. Inoltre si proporrà anche come insegnante: i suoi allievi impareranno a suonare arie di Mozart, di Weber, di Rossini, di Meyerbeer e di Aubert. Gli strumenti originali sono piuttosto sobri ma, come si può immaginare, le novità provenienti da ambienti nobiliari e borghesi stranieri attirano inevitabilmente le attenzioni di un pubblico raffinato: il colpo grosso Reisnier lo ottiene quando nientemeno che il re Louis-Philippe, nel 1834, padre di una prole numerosa (dieci figli), acquista un “Accordéon” per uno dei ragazzi. Si ignora quale dei figli sia il fortunato, ma questo fatto dà il via ad una produzione di altissima qualità e raffinatezza: innanzitutto, gli strumenti sono a tre ottave e mezza (analoghi a quelli che usiamo tutt’oggi), vengono impiegati materiali costosi e rari come madreperla, avorio, ebano, palissandro; intarsi in ottone, argento e scene pastorali dipinte ad olio sulle casse armoniche, il mantice è rivestito di stoffe, carte colorate e talvolta seta. Nel 1844, l’acquisto di un “Accordéon Reisnier” da parte della Principessa Mathilde, figlia di Jerome Bonaparte e cugina di Napoleone III, sancisce il definitivo ingresso a corte e presso i migliori salotti di Parigi. Il costruttore, nel 1847, dichiarerà un fatturato annuo di 1.391.497 Franchi, una cifra astronomica per uno strumento che non poteva essere ancora “popolare”. Honoré de Balzac, nel 1848, nell’opera “L’Envers de l’Histoire Contemporaine”, cita come il Barone Bourlac acquistò un “Accordéon” per la figlia malata, la quale suonerà incessantemente la “Preghiera di Mosè” dall’opera di Rossini “Mosé in Egitto”. Lo strumento, come il pianoforte (nel jazz) e il violino (nella musica di tradizione), conoscerà solamente in seguito la strada verso il mondo popolare, grazie ai numerosissimi costruttori comparsi sul mercato: campanilisticamente, due nomi italiani su tutti; Paolo Soprani e Mariano Dallapè, i quali costruirono strumenti dal costo più appetibile (ma sempre non accessibile a tutti: ricordiamo come nel 1914 una “Dallapè” semitonata costasse 300 lire, mentre la paga di un contadino per una stagione di campagna venisse retribuita 30 lire) e dalla struttura più complessa e completa armonicamente. Quindi, per concludere, ritenere l’Organetto o l’”Accordéon” strumenti “campagnoli” o “folkloristici” vuol dire non conoscere la vera storia che ha portato queste fantastiche invenzioni a suonare ancora attuali al giorno d’oggi: sarebbe come paragonare questo al violino, uno strumento malleabile e adattabile ai vari generi, suonato nella musica classica, nel folk, nel jazz e anche nel rock, senza soluzione di continuità, ogni stile con la sua caratteristica diversa. Al giorno d’oggi, l’evoluzione dell’”Accordéon”, la Fisarmonica, si insegna al Conservatorio e grandi compositori del passato come Verdi o Tchaikovsky hanno inserito strumenti ad ancia libera nelle loro composizioni.

( Un ringraziamento particolare al Maestro Gianni Ceretto Castigliano per le preziose note storiche e Pierre Monichon per il suo bellissimo volume “L’Accordéon”, vera Bibbia dello strumento. Onore ai “Natali Nobili” dell’Organetto!)

ËL QUINTËT – un’antica tradizione musicale Canavesana

“Ël Quintët”, “ël Trombi (le trombe)”, la “Muda (il cambio)”, la “Fanfara” sono denominazioni in uso in diversi paesi del Canavese (rispettivamente Brosso, Rueglio, Palazzo C.se e Quincinetto per indicare lo stesso tipo di formazione musicale, un “ensemble” formato da strumenti a fiato, perlopiù ottoni. L’indicazione “quintetto” non deve però dare adito all’idea che siano necessarie almeno cinque persone per formare il gruppo, questa motivazione è bensì dovuta alla struttura musicale: trattasi difatti di musica eseguita con cinque parti differenti. Gli strumenti che compongono il “Quintët” sono strumenti a fiato, non essendo contemplate le percussioni o i cordofoni. Qualche volta può comparire la fisarmonica, ma non era prevista all’origine della formazione. Gli strumenti a fiato, essendo per loro natura monofonici, con la formazione a cinque voci differenti creano polifonia. Le indicazioni teoriche dateci dai nostri collaboratori per comporre un “Quintët” sono: la “Prima parte” o “Canto” ; viene eseguita generalmente da un clarinetto, un saxofono o da una tromba. Il “Contraccanto” ; può essere eseguita dagli stessi strumenti, i quali possono suonare una parte in terza, o in ottava o una melodia variata. Gli “Accompagnamenti” ; normalmente eseguita dai Genis, formano le due note dell’accordo , terza e quinta e suonano generalmente in levare. Il “Basso” ; mantiene il tempo e la quadratura del tutto, non disdegnando però talvolta di eseguire esso stesso il tema portante. Questa formazione si presume abbia come genesi la “Fanfara” militare (denominazione, come abbiamo detto, ancora in uso a Quincinetto, Carema, Settimo Vittone, Tavagnasco, etc.) che eseguiva musiche atte ad essere suonate in movimento, in marcia o di corsa. Era quindi auspicabile l’uso di uno strumento portatile, non eccessivamente pesante e soprattutto facilmente gestibile in intonazione e articolazione. L’uso di clarinetti e saxofoni sarebbe stato introdotto molto più tardi, con l’avvento della Banda. Ricordiamo che, in Italia, l’organizzazione di Bande musicali non avvenne prima del 1865 e che, con l’avvento del Regno d’Italia (1861), la pratica di “alfabetizzazione” musicale venne largamente diffusa nelle città e nei paesi, proprio per dare vita a quelle forme associative chiamate Bande che dovevano celebrare musicalmente il nuovo Regno. Maestri di musica, appositamente stipendiati, vennero interpellati nei vari comuni per istruire alla lettura musicale i “suonatori” che fino ad allora avevano fatto “più pratica che grammatica”, cioè suonavano “ad orecchio”, senza spartito. Questo contribuì alla scomparsa di tutto un repertorio arcaico di tradizione orale, ma si sa che non si può suonare musica bandistica, di natura “colta”o “semi-colta”, senza che ognuno rispetti la sua parte. Gli strumenti del “Quintët” antico erano diversi dagli attuali: tipo la Cornetta (derivante dalla Cornetta militare senza pistoni), dal suono più morbido e agile rispetto alla Tromba. Il canneggio conico della Cornetta influisce molto sul suono, rendendolo più scuro e melodioso; la Tromba, invece, presentando un canneggio cilindrico, suona con tonalità più squillanti. La Cornetta eseguiva la parte del “Canto”. Il “Contraccanto” poteva essere eseguito dal Genis (della famiglia dei Flicorni) o dal Bombardino (nome in italiano Eufonio), entrambi appartenenti anch’essi alla famiglia degli strumenti a canneggio conico, quindi dal suono scuro. La famiglia dei Genis fu strutturata nientemeno che da Adolphe Sax, l’inventore del Saxofono, attorno al 1845, raggruppando e mettendo ordine tra una serie di strumenti pre-esistenti. Gli “Accompagnamenti”, oltre che dai citati strumenti, possono oggigiorno essere eseguiti dal Trombone a coulisse o dal Corno francese, a seconda della disponibilità degli strumentisti. Per ultimo, il “Basso” può essere suonato dal Tuba o dal Bassotuba, entrambi sempre facenti parte della famiglia dei Genis. Un modello adatto per essere trasportato in marcia è l’ “Helicon”, con il braccio e la spalla del suonatore passanti all’interno dello strumento. Dove venivano costruiti questi strumenti? A Torino, c’erano diversi costruttori di strumenti a fiato (Moretto e Milanesio, Morutto…) ma anche in zona esistevano validi artigiani: si possono vedere, su qualche vetusto ottone del passato, le etichette della fabbrica Pitetti di Ivrea. La lega metallica usata per la costruzione non era certo sofisticata come quelle di adesso, ma il suono scuro e armonico che ne derivava è una caratteristica sonora del “Quintët” antico. Abbiamo parlato finora di musica scritta per banda, ma il “Quintët” prevede che si suoni senza notazione scritta, senza orchestrazione se non quella spontanea e “a orecchio” fornita dagli esecutori. Il testimone Aldo Fontana, suonatore di tromba di Brosso, nel 1974 raccontò ad Amerigo Vigliermo:: “ Noi suoniamo tutti più volentieri nel “Quintët”! Noi non siamo musicanti del Conservatorio e allora, venendo su con qualche suonata da “Quintët”, ci sembra che suonino bene e allora c’è un’altra soddisfazione! Come ti dico, meglio che suonare un “pezzo” (in questo caso, un brano musicale concertato). Capisco che suonare un “pezzo” abbia un altro valore, un’altra faccenda, ma il “Quintët” è una soddisfazione più grossa per noi e anche per quelli che ascoltano, almeno per quelli di questi nostri paesetti che sono nati lì e si capisce che non sanno la musica, ma la sentono! Eccome se la sentono!” Di fronte a queste parole, emerge tutta la spontaneità e la bellezza che caratterizzano la nostra tradizione musicale popolare, aldilà di ogni velleità e speculazione economica, bastando la pura espressione sonora a dare un valore aggiunto alla Cultura della nostra Gente. Qual è il repertorio musicale eseguito dal “Quintët”? Generalmente sono ballabili: valzer, polche, mazurche, monferrine, ma anche marce e brani adatti ad essere cantati a seconda delle situazioni. Ad esempio, la “Fanfara dei Coscritti” o la “Fanfara dei Partenti”, suonata quando qualcuno emigrava dal paese e il “Quintët “andava ad accompagnarli fino fuori dall’abitato. Per i servizi ai funerali, invece, era presente tutta la Banda. Non c’erano occasioni “speciali” per far uscire il quintetto a suonare, bastava averne voglia e si creava subito la festa. Feste dei coscritti, nascite, matrimoni, la transumanza, erano tutte occasioni per fare un po’ di musica spontanea e esserne appagati, sia come ascoltatori che come esecutori. La funzione del quintetto è anche quella di interscambiabilità tra i suonatori, capita così che squadre improvvisate di musicisti si ritrovino (magari senza conoscersi) e suonino assieme un brano noto a tutti. Nessuno è “primadonna” nel quintetto, ma tutti giocano in squadra e ognuno diventa protagonista nel far musica. Molte volte, i titoli dei ballabili sono anonimi: abbiamo magari una qualche denominazione “romantica” come il valzer “Amore Notturno” oppure la polca “Scossa Elettrica” o “La Va Benone!”(scritte da Dante Corzetto detto “Rabat”, trombettista-compositore di Rueglio) , oppure un titolo più vago: la “Polca Veglia”o la “Mazurca Veglia”, dove “veglia” indica l’età del brano (più o meno gli anni attorno al 1920). Abbiamo la “Polca di Bagino”, non perché l’avesse scritta lui, ma perché era uno dei suoi cavalli di battaglia. Così come la “Polca di Anita”, brano da virtuosi, eseguita da Anita Mosca, la nipote di Aristide Mosca detto “Palasòt”, uno dei più famosi suonatori canavesani. Molte altre volte, purtroppo, ci dobbiamo accontentare di “Valzer n.10” o di “Mazurca n. 2”, in quanto i numeri designano la “cronologia” dei brani trascritti sui piccoli libretti che servivano come promemoria ai suonatori, in quanto non esisteva ancora la possibilità di registrare su nastro magnetico. Questi libretti, preziose testimonianze del passato, custoditi gelosamente dai nipoti o dai famigliari dei suonatori, sono l’unica fonte alla quale appellarci per ricostruire un repertorio che è mutato più e più volte nel tempo. Difatti, la musica del “Quintët” non è statica, ma si aggiorna e si modifica secondo i gusti e le esigenze contemporanee. Brani di musica leggera o moderna sono eseguiti con lo stile tipico del passato, rendendo così attuale un discorso che avrebbe potuto finire nel dimenticatoio. Nel libro “Sonador da Coscrit e da Quintët – Ricerca sulla Musica Popolare in Canavese e Valle d’Aosta seguendo il sentiero tracciato da Amerigo Vigliermo” sono stati riprodotti un centinaio di questi spartiti, frutto di una ricerca ormai quarantennale che il Centro Etnologico Canavesano (C.E.C.) ha condotto presso gli ultimi “Testimoni della Tradizione”. Un repertorio salvato, da valorizzare ma soprattutto da far vivere, come bandiera della nostra Cultura Popolare. Per concludere, qualche nome di suonatori da “Quintët”: Isidoro Battistino detto “Barba Mineur”, Renato Battistino, Aldo Fontana (tutti di Brosso), Leo Bosonetto, Renato Vairetto, Ninetto Vairetto (di Carema), Primo Avial (di Lessolo),Carletto Giovanetto, Margherita Vigna (di Montestrutto), Aristide Mosca detto “Palasòt”, Quinto Bonino (di Palazzo C.se), Giuseppe Buat, Lino Buat, Domenico Jachi (di Quincinetto), Dante Corzetto detto “Rabat”, Melino Peraglie, Gianni Peraglie, Gelso Vigna (di Rueglio), Gianni Prola e Giacomo Sardino (di Settimo Vittone). E un aneddoto finale, raccontato dalla viva voce di uno dei testimoni intervistati: “La Mazurca del Piën d’Alàs!” Ti posso dire che il titolo originale era “Una Volta ero Bella”.Era nel 1922 e la gente qui a Brosso viveva facendo gli operai alla miniera o i margari. Nel mese di giugno c’è stato uno sciopero di tre mesi e, dato che era il tempo del fieno, tutti sono andati su per le cascine a tagliarlo. Dato che tutti suonavano, si sono portati dietro lo strumento perché sapevano di stare su almeno quindici giorni. E così di sera si trovavano dove c’erano le “matòtte”(ragazze) e suonavano e ballavano fino a notte tarda. Forse perché non sapevano tanti ballabili o forse perché la mazurca piaceva a qualcuno, suonavano sempre quella e così ha preso il nome della mazurca del “Piën d’Alàs”! Si dice Piën d’Alàs, ma non è tanto in piano. Era un prato e a forza di girarci sopra hanno strappato persino la “tëppa” (manto erboso)! I proprietari erano molto arrabbiati! Pensa, era quando c’erano ancora tutte quelle ragazze…le Fontan-e…” Già, quando c’erano tutte quelle ragazze e bastavano solo “doi cotlet-te… e l’era già festa gròssa! (Due bistecchine…ed era già una grossa festa!)”. Altri tempi.

Rinaldo DORO, gennaio 2015

Ricerca sulla musica popolare in Canavese e Valle d’Aosta seguendo il sentiero tracciato da Amerigo Vigliermo

Musicista e studioso di musica popolare, Rinaldo Doro, vanta una lunga carriera musicale spesa in varie formazioni locali, e un rigoroso percorso di ricerca nell’ambito delle tradizioni canavesane intrapreso nel 1978 al fianco di Amerigo Vigliermo e il Coro Bajolese. Da allora, come socio del Centro Etnologico Canavesano di Bajo Dora (To), ha proseguito la sua attività di raccolta, studio, ed archiviazione di antichi spartiti e strumenti musicali, culminata con la pubblicazione del pregevole volume “Sonador da coscrit e da quintët. Ricerca sulla musica popolare in Canavese e Valle d’Aosta seguendo il sentiero tracciato da Amerigo Vigliermo”. Lo abbiamo intervista per approfondire insieme a lui il suo percorso di ricerca, soffermandoci sulla metodologia di documentazione, le difficoltà incontrate, senza dimenticare i progetti in cantiere.
Com’è nato il progetto di ricerca che è alla base di “Sonador da Coscrit e da Quintët”?
Il libro nasce da una mia personale constatazione, risalente ad almeno dieci anni fa: la cronica mancanza di letteratura musicale, e quindi spartiti, sulla musica popolare piemontese. Quando andavo all’ estero per suonare, notavo sempre metodi e libri con spartiti di musica bretone, irlandese, della Francia centrale ma mai trovavo analoghe (o meno che mai, rare) pubblicazioni su musiche tradizionali da danza italiane, tanto meno quelle della mia regione. Quindi, ho deciso di “mettere mano” al mio archivio di circa 30.000 spartiti (manoscritti e a stampa) raccolti in questi 36 anni di ricerche in Canavese. Tutto partì, quindi, come un semplice opuscolo divulgativo per i giovani musicisti desiderosi di ampliare il loro repertorio. Man mano, però, mi accorgevo anche che mancava una “letteratura” sui musicanti e suonatori del passato presenti sul territorio, ed era necessaria una ri-lettura ed un aggiornamento degli scritti compilati negli anni Settanta dal mio nume tutelare nell’ambito della musica popolare, Amerigo Vigliermo. Sono venuti fuori, così, i “Coscritti”, i loro riti, le musiche, la formazione arcaica dei “Quintèt”, le danze di Rueglio, il “Tambour” di Cogne. Alla fine, ho dovuto chiudere il libro così, perché diversamente avrei dovuto scrivere almeno altre trecento di pagine! E’ un mondo invisibile nella sua totalità, come gli “iceberg”: più credi di sapere e più la realtà si occulta sotto la superficie, in attesa di essere svelata. Non si riuscirà mai a porre la parola “fine”. Mai.
Quanto sono state importanti le ricerche sul campo di Amerigo Vigliermo per questo libro?
Amerigo è stato e continua ad essere il mio faro nella nebbia della Cultura Popolare. E’ il Costantino Nigra del nostro tempo! Quest’uomo incredibile, dal 1969 fino ai giorni nostri, gira con il registratore alla mano, macchina fotografica e videocamera per documentare la vita a 360 gradi della Gente del Canavese. Scrivo Gente con la G maiuscola, come scrive Amerigo, per dimostrare l’enorme rispetto che nutre nei confronti delle persone che chiama “testimoni del loro tempo”. A Bajo Dora (TO) esiste quest’enorme archivio della nostra storia sociale, voci di uomini e donne che magari non ci sono più, ma che ci hanno lasciato un bagaglio enorme di cultura, speranza, amore. E’ la nostra storia popolare, quella vera, magari a qualcuno può apparire scontata o troppo banale, ma questo è il nostro blues, la gioia e la sofferenza della vita sul nostro territorio. Questo archivio oggi non potrebbe essere più fatto, o comunque sarebbe profondamente diverso. Migliaia di ore di registrazioni sonore, fotografie, video, libri e spartiti musicali lo rendono un unicum a livello europeo tra gli archivi sulla cultura popolare. E’ assolutamente imprescindibile, vuoi per metodologia che per risultato finale, per chi vuol conoscere la cultura del territorio.
Come si è indirizzato il tuo lavoro dal punto di vista metodologico?
Ho seguito i dettami di Amerigo e quelli del mio cuore! Semplicemente, mi sono chiesto cosa mi sarebbe piaciuto leggere e avere sottomano da consultare. Quindi, ampia importanza alla musica scritta (in molti casi, trascritta da nastri o da files da parte di Sonia Cestonaro, l’autrice di molte trascrizioni musicali e mia fida “compagna” musicale e d’avventura sul campo) e alle notizie tecniche riguardo le modalità di esecuzione e di fruizione della musica Canavesana. E poi parlare con i familiari, con i protagonisti ancora viventi di questo mondo, cambia improrogabilmente il tuo modo di vedere e sentire, il modo di approcciarsi a questa cultura. Ora, non posso più fare a meno di difendere a spada tratta questa Gente. Gente che ci lascia l’ultimo esempio di Civiltà. Quella contemporanea, mi spiace dirlo, non la riconosco come Civiltà. Nel senso più nobile della parola, non posso farlo. Ho trascorso non so più quante ore con il registratore in mano a parlare con quelle persone, con quelle famiglie. Mi sono arricchito nell’animo e posso dire di avere avuto affetto in cambio da loro. Si sono create amicizie profonde, mi sento (con privilegio) di essere anch’io parte di quel loro mondo, trattato alla pari. Per me, è un enorme regalo!
Con quale criterio hai selezionato le fonti e i materiali tradizionali per la tua ricerca?
Non ho selezionato nulla in particolare se non con il criterio dell’ affetto e del cuore. Melodie che sono ancora note nei paesi, oppure musiche che non si suonavano più dagli anni Trenta, o anche vere e proprie “chicche” strumentali. Certe volte, e mi commuovo al solo pensiero, ho visto scorrere le lacrime sulle guance della gente che incontravo, perché erano suoni che ricordavano la loro vita. Questa è la più grande soddisfazione, il sentirsi riconosciuto dai testimoni come facenti parte della loro Gente e non come un estraneo venuto a ricercare chissà che cosa. Essere parte integrante della loro anima, della loro cultura tradizionale.
Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel corso delle tue ricerche e nella realizzazione del libro?
La difficoltà maggiore è stata riguardo la veloce perdita di memoria collettiva che si è creata in questi ultimi anni. Pare che siano passati secoli da quando questi suonatori si esibivano e i quintèt suonavano sul territorio, ma colgo anche i segnali per una riscoperta tutta “Canavesana” che sta salendo pian piano qui da noi, una crescita culturale legata al territorio che sta prendendo piede. Leggo sempre di più “Gastronomia Canavesana”, “Architettura Canavesana”, registi cinematografici e scrittori si appoggiano al nostro territorio molto più numerosi e consapevoli che in passato. Insomma, prevedo una rinascita, spero anche economica, di questa area. Una radice sepolta dal pressapochismo dell’ultimo ventennio, ma destinata a tornare alla luce. Ho buone speranze per il futuro. Per altro, tutti i protagonisti del libro e le loro famiglie sono stati più che lieti e gentili nell’aiuto datomi alla compilazione del volume. E’ stato il mio piccolo contributo alla rinascita del territorio.
Quali sono le caratteristiche del corpus musicale oggetto del tuo studio?
Non credo che si possa parlare solo di musica Canavesana, cioè composta e suonata con determinate modalità, o perché suonate o brani ballabili erano composti in loco, magari dal maestro della banda o da qualche musicista più capace. La musica che è passata su questo territorio molte volte veniva anche appresa dagli emigranti all’ estero (non dimentichiamo che in Canavese l’emigrazione è stata massiccia, verso le Americhe o anche verso la Francia, la Germania, il Belgio…) e riportata, trasformata e eseguita qui. Paradossalmente, è come se un gruppo di nativi giamaicani emigrasse all’estero, imparasse a suonare le musiche locali straniere e poi se ne tornasse in Giamaica, suonando le melodie apprese con lo stile del reggae! Esiste un modo, un accento specifico “Canavesano”, che trasforma una melodia in qualcosa di locale, tipico, di unico. Basti ascoltare il “Quintèt” di Brosso quando esegue “Azzurro” di Paolo Conte, che è un brano di musica leggera, ma che diventa inevitabilmente brossese! In Piemontese noi usiamo una parola, intraducibile: il “Ghëddo”. Significa la dinamicità, l’accento, la pronuncia della suonata. Ecco, il “Ghëddo” è la trasformazione della musica altrui attraverso la nostra Cultura del territorio.
Dalla ricerca sul campo sei arrivato poi al libro. Come si è indirizzato il lavoro in fase di impostazione editoriale?
Ho trovato fortunatamente chi si è innamorato subito del progetto: Giampaolo Verga e la sua Casa editrice “Atene del Canavese”. E’ un editore piccolo, ma molto dinamico e, soprattutto, è uno dei protagonisti della rinascita Canavesana. Un incontro decisivo ed molto riuscito, direi. La prima stampa è praticamente esaurita, attendiamo la seconda! Ma il merito enorme è stato comunque quello di Amerigo Vigliermo e del C.E.C.: senza la loro esperienza, non sarebbe stato possibile affrontare al giorno d’oggi un lavoro simile.
Nel tuo libro una parte importante è dedicata alle interviste con gli informatori. Ci puoi raccontare il tuo rapporto con loro?
Si sono creati dei rapporti di affetto e amicizia che continuano al di là della pubblicazione editoriale. Rapporti che creano sempre nuovi motivi per tornare, per chiedere e per capire le complesse realtà della loro vita e della loro Cultura. Un rapporto proteso nel tempo. Insomma, ci si vuol bene!
Di pari importanza è poi la sezione dedicata agli strumenti musicali. Puoi illustrarcela?
Gli strumenti musicali erano comunque rari, un tempo, perché costosi e il mondo contadino e montanaro non prevedeva il “superfluo”, bisognava arrangiarsi come si poteva. Nel 1914 un “Semitoun” (organetto) costava 300 lire, una stagione in campagna veniva retribuita 30 lire. Occorrevano 10 anni di lavoro per comprare una strumento professionale. Avrei voluto approfondire di più le “questioni” legate all’avvento della fisarmonica e la conseguente trasformazione delle squadre da ballo da “Quintetti” a semplici duo, ma non potevo più approfondire l’argomento, per vari motivi di tempo e di spessore del volume. Magari in futuro, cercherò di addentrarmi ulteriormente in questo settore.
Da ultimo, ritengo importantissimo l’aver corredato il libro non solo delle trascrizioni dei brani tradizionali, ma anche di un disco di registrazioni sul campo. Quanto è importante offrire un documento sonoro e una trascrizione musicale al lettore?
E’ stato assolutamente importante. Le trascrizioni vanno bene e rimangono scritte nero su bianco, ma risentire le esecuzioni con il “Ghëddo” originale, è fondamentale. Oltretutto, queste registrazioni sono state fatte da Amerigo Vigliermo nel 1974 e oggi non sarebbero più riproducibili. Questo era il “Quintetto” originale, questi erano i veri “Sonador da Coscrit”. Ci hanno lasciato questa loro eredità da ascoltare e valorizzare.
Sei socio del Centro Etnologico Canavesano di Bajo Dora, ci puoi raccontare le vostre principali attività?
Il C.E.C. (Centro Etnologico Canavesano) agisce su vari livelli: la ricerca, l’analisi, la restituzione. Gode di un vastissimo archivio audio-video, di una buona biblioteca e della intensissima attività del Coro Bajolese, veri e originali esecutori e “restitutori” di quella Cultura del Canto Popolare così spesso trascurata. Inoltre, il C.E.C. è anche editore, con numerose pubblicazioni editoriali e sonore riguardo la Cultura popolare Canavesana. Per chi volesse approfondire l’argomento: www.cec.bajodora.it.
Quali sono i tuoi progetti di ricerca su cui stai lavorando attualmente e quelli che hai in animo per il futuro?
Il mio prossimo lavoro editoriale verterà su “Lou Tambour de Cogne”, vero protagonista sonoro della festa dei coscritti in Val di Cogne. Le “ Monferrine” a “Due” e “Tre Tens”, “Lou Valse” sono i brani ancor oggi ballati e suonati nelle feste de “Lou Tintamaro de Cogne”, veri testimoni della cosiddetta tradizione vivente. E anche altri interessanti strumenti erano presenti sul territorio, ma bisognerà aspettare il secondo volume in uscita a Natale di quest’anno. Poi, in seconda battuta, ho in mente di sviluppare un terzo libro con cd sul “Ballo a Palchetto” e il mondo ad esso legato: repertori, orchestrine, amori nati e vissuti sulle assi delle piste da ballo itineranti. Intanto, continuo a raccogliere spartiti, strumenti, fotografie e altre masserizie, in quanto preferisco documentare il più possibile le ultime testimonianze di Civiltà presenti sul territorio. Mi pare, così, di rendere giustizia a tutta quella Gente che ha lavorato, ha vissuto e amato in questa terra, senza mai lamentarsi più di tanto e senza mai chiedere di più di quello che avevano. Un riscatto culturale, questo è il minimo che dobbiamo ai nostri predecessori. Non dimentichiamo mai chi siamo e da dove veniamo!
Rinaldo Doro, Sonador da coscrit e da quintët. Ricerca sulla musica popolare in canavese e valle d’Aosta seguendo il sentiero tracciato da Amerigo Vigliermo, Edizioni Atene del Canavese 2014, pp. 336, Euro 25,00 Libro con Cd
Lo spirito che ha animato Rinaldo Doro nella sua ricerca nel Canavese e la successiva pubblicazione del volume “Sonador da coscrit e da quintët. Ricerca sulla musica popolare in canavese e valle d’Aosta seguendo il sentiero tracciato da Amerigo Vigliermo” è racchiusa mirabilmente in quanto scrive quest’ultimo nella presentazione che apre il volume: “La nostalgia del passato, fine a se stessa, non aiuta molto a migliorare il presente. È la conoscenza del passato che può indicare una via più sicura per ritrovare un mutamento di pensiero vero il mondo antico (per qualcuno antiquato) della nostra gente”. Evitando ogni sterile sentimentalismo, o i ricordi fine a sé stessi, Rinaldo Doro, con questo volume ha voluto non solo cristallizzare una scheggia di passato che, negl’anni sarebbe caduta nell’oblio, ma soprattutto è stato animato dal desiderio di condividere la ricchezza della cultura orale della propria terra con le nuove generazioni. Recuperare il passato significa, dunque, creare una base solida nel presente per affrontare il futuro, proprio come da anni fa il Centro Etnologico Canavesano del quale Rinaldo Doro è parte integrante con la sua attività di ricerca e documentazione. Edito dalle Edizioni Atene del Canavese di San Giorgio Canavese (Torino), questo corposo libro con cd è il risultato di un intenso lavoro di ricerca compiuto negl’anni da Rinaldo Doro, il quale proseguendo nel solco tracciato da Amerigo Vigliermo, ha compiuto un vero e proprio viaggio nel tempo, alla riscoperta di quel filone musicale legato ai suonatori delle feste dei coscritti e dei quintetti. Le oltre trecento pagine di questo volume sono così un enorme baule di ricordi, testimonianze, e preziosi documenti che nel loro insieme ricostruiscono in maniera mirabile un universo sonoro di grande fascino. La prima parte raccoglie interviste e testimonianze degli anziani suonatori, alcuni di questi purtroppo scomparsi, come il mitico Palasòt, al secolo Aristide Mosca, che con Paolin (Paolo Avondoglio) ha fatto ballare le feste dei coscritti nel Canavese e nella Valle d’Aosta, e dei quali possiamo ascoltare alcuni preziosi documenti nel disco allegato. Pregevole è anche la ricca sezione dedicata agli strumenti tipici, così come grande attenzione è stata riposta nella parte coreutica con gli approfondimenti illuminanti su “La Corenta di Rueglio”, e “Il ballo a palchetto”. Non manca una gustosa anticipazione sul prossimo volume in cantiere con un focus sul “Tamburo di Cogne”, così come ricchissimo è l’apparato fotografico che raccoglie quaranta immagini d’archivio. A completare il volume sono circa cento spartiti di antichi brani, tra tradizionali e composizioni degli anziani suonatori, nonché il già citato disco allegato che raccoglie ben diciotto brani, registrati sul campo da Vigliermo negli anni Settanta. Insomma “Sonador da Coscrit e da Quintët” è un opera di grande interesse che getta nuova luce sulla tradizione musicale dell’area Canavesana, ma soprattutto ci svela tutta la passione e la gioia delle feste dei coscritti e dei quintetti.

Salvatore Esposito

I Violini di Santa Vittoria

Ieri pomeriggio abbiamo avuto una piacevole sorpresa, un simpatico “colpo doppio”: la visita al “Museo del Paesaggio Sonoro” di Riva presso Chieri (TO) e il concerto a seguire de “I Violini di Santa Vittoria”. Orbene, avere una realtà così sottomano, nata dal sogno e dal desiderio di Domenico Torta, insigne Musicista e Antropologo di Riva, è una gioia per il cuore e per l’anima. Il “Mondo Contadino”, sempre sfruttato e usurato ormai dalle continue richieste commerciali e adoperato come simbolo di “purezza”, “genuinità” e “bei tempi andati” da tutta una parte del mondo industrial-alimentare-turistico, sinceramente sta mostrando la corda… Chi ha vissuto, anche per breve periodo della sua vita, con il mondo agricolo sa che non esiste campagna senza sofferenza e “mondo popolare” senza dolore e fatica. Certo, amiamo tutti lanciarci in tour eno-gastronomici nelle Langhe o in Monferrato, ballare le belle danze del tempo andato e del “vuoi mettere una bella passeggiata in campagna?”. Già… ricordo le parole di James Senese, musicista di “Napoli Centrale”: “La campagna è bella per il figlio del padrone, che ci viene solamente con gli amici a passeggiare, ma per il figlio del bracciante la campagna è un’altra cosa, la campagna è solamente culo rotto e niente più”. Andate a visitare il Museo di Riva! Suoni, sogni, evocazioni di un passato non mitico, ma reale: il rumore della pioggia, la nebbia, il bosco degli uccelli, la “Cantarana”, le campane “a baudëtta”…
Non vi voglio togliere la sorpresa, prendetevi un’ora e mezza (tanto dura il giro) e andateci.
E poi, il concerto de “I Violini…”. Una gradita sorpresa, un foltissimo pubblico ha potuto godere della rievocazione di un repertorio novecentesco di grande levatura. La storia: i braccianti di S.Vittoria, duramente provati dal lavoro nei campi, decisero di guadagnarsi la libertà dal lavoro agricolo studiando musica. Nessuno era musicista, ma ogni famiglia, a duro prezzo, scelse di mandare i figli a studiare il violino a 15 Km. di distanza, nel vicino paese di Gualtieri. E lo studio premiò quella gente, i “Quintetti” famigliari violinistici fiorirono e permisero ad un paese di agricoltori-braccianti di divenire il “Paese dei Cento Violini”. Conclusioni: vi consiglio di non perdere nessuna delle due occasioni (Museo + Concerto) per le date a venire. In programma vi saranno “Salentrio” il 23 aprile, i “Suonatori della Val del Savena” il 21 maggio, “Gabriele Ferrero, Silvio Peron, Dino Tron e altri” il 18 giugno, la “Posavina Bosniaca” il 17 settembre e i “Musicanti di Riva” l’8 ottobre. Concerto e ballo in piazza. Con orgoglio e, lasciatemelo dire, innocente “campanilismo”, una rassegna di “Eccellenza Italiana”. Non facciamoci abbindolare dalle mode temporanee, questa “Cultura” ha resistito anni e anni, tra guerre, carestie e povertà. Diamogli almeno il giusto rispetto.